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sabato 31 luglio 2010

La famiglia (capitolo II)

Lino avrebbe iniziato il turno alle tredici, poi via fino alle 21 con una sosta per la cena. Si alzò, faticava a restare a letto senza dormire, si vestì velocemente e uscì. L’orto era una sua passione, lui veniva dalla campagna, ed ora che era costretto a lavorare in fabbrica, in ogni momento libero si dedicava all’orto che aveva piantato nello spazio dietro casa. Pomodori, insalata di vario tipo, peperoni, un po’ di rosmarino, salvia e basilico e poi nella scelta di cosa coltivare accontentava la figlia. Silvia stravedeva per il padre e Lino ricambiava. Anna era stata sempre gelosa di quel rapporto fra padre e figlia, fra loro c’era confidenza, si capivano o almeno tentavano di farlo. Questa volta Silvia aveva richiesto le fragole.

Un risveglio lento era quello di Anna, lei adorava dormire, un po’ per piacere un po’ per sfuggire alla morsa dell’ansia. Era una brava donna, l’avevano cresciuta un po’ all’antica, col valore del nome di famiglia, dell’onore personale e della verginità fino al matrimonio. Non era colpa sua se lei pensava che quello fosse l’unico modo degno di vivere. Non era colpa sua se a sapere che la figlia aveva in grembo una creatura lei si sentiva male. Non riusciva a gioirne, forse perché la madre ancora viva non faceva che ricordarle che gli altri parlano e ti sputtanano. Anche Anna si era innamorata follemente di Lino, era anche più giovane delle figlia quando successe, ma lei restò illibata. Il fatto che la figlia avesse perso la testa per quel primo ragazzo non le dispiaceva, anche se vedeva la figlia spegnersi e vivere ad immagine e somiglianza del suo fidanzato. La cosa che non accettò era l’idea che la figlia si presentasse all’altare col pancione e che non poteva mettersi il vestito bianco. Che Silvia fosse finalmente amata e che amasse in modo sano il nuovo fidanzato passava inosservato. Quel giorno Anna si accorse che il marito si era alzato, ma non gli diede molta importanza visto che sempre, quando lei apriva gli occhi, il marito aveva già lasciato il suo posto a letto. Si vestì con calma, decise di andare al mercato e infatti andò.

Gina ascoltava il telegiornale, uno dei tanti che sentiva durante la giornata mentre cucinava, stirava o cercava di tenere pulita la cucina. Lei, come dicevo, non voleva proprio mollare quel ruolo di vergara che era stato suo quando si sposò col signor Buotta. Erano contadini: l’uomo nei campi e la donna in casa. Restò in casa anche quando si spostarono in paese e il marito, preso il libretto del lavoro portando quaranta uova a chi di dovere, andò a lavorare in fabbrica. Quante volte Gina parlava da sola tante la figlia, accorgendosene, ripensava al padre. Fu così anche quella mattina, appena alzata sentì la madre riflettere su quanto i giovani di oggi fossero immorali, scansafatiche e maleducati, nonostante fossero tutti studiati. Anna ricordava i silenzi del padre mentre la madre parlava e parlava. Quell’uomo era un santo, aveva una pazienza sovraumana. Non litigava mai con la moglie, le raccontava tutto, le riportava i soldi e le faceva gestire ogni cosa.

Silvia si svegliava tardi, un po’ come la madre, ed ora ancora di più perché la gravidanza la faceva dormire. Il bello di Silvia era nei suoi occhi, pieni di luce, e nel suo sorriso travolgente. Il buono di Silvia era nella sua dolcezza, la teneva nascosta dietro l’aspetto da dura, la regalava solo a chi era più debole e a chi ne aveva bisogno. Amava i bambini e averne uno la dava un immensa gioia. Da ragazzina aveva sognato spesso di avere una famiglia numerosa, diceva sempre di volere tre figli e che avrebbe giocato con loro a terra, sul pavimento, mentre avrebbe aspettato il ritorno del marito. A quel punto i bambini avrebbero assalito il padre, se li immaginava aggrappati alle gambe. Lei non aveva mai assalito Lino. Lino non aveva mai giocato con lei, così Anna. Lorenzo, pensava la fidanzata, sarebbe potuto essere come nel sogno, ma anche se non ci sarebbe riuscito sarebbe andato sempre bene. Silvia era adorata e lei lo sentiva, quasi ne era imbarazzata. Ogni giorno che passava le serviva ad imparare ad essere amata. Mise i piedi a terra, le girava attorno l’intera stanza, attese un istante prima di alzarsi e poi di corsa in bagno ad onorare un mero bisogno. Onorare perché doveva andare spesso in bagno per via della gravidanza, le capitava nei momenti più assurdi, anche quando un bagno non era nei paraggi, però, passata la paura che se la sarebbe potuta far sotto, lei rideva. Aspettare un bambino era un onore.

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