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venerdì 27 agosto 2010

La famiglia (capitolo V )

La pancia cresceva. Anna si disperava a veder girare per casa la figlia, figurarsi a immaginarla fuori. Pensava che da dietro non sembrava nemmeno… incinta, faticava a dire quella parola. Uno scherzo di cattivo gusto che la natura le aveva fatto. “E’ tutta pancia” dicevano le vicine di casa, le amiche di Silvia, i parenti, addirittura il fornaio. Lei si rinchiudeva in casa per non sentirli. Il pane lo comprava Lino ormai da un mese e mezzo. Al mercato ci andava ormai di rado, anche se fare compere, seppur modeste, le piacesse tanto. Evitava i vicini, tranne la signora Cuti, che incrociava ogni sabato alla finestra mentre scrollava i tappeti per far pulizia. Gina mangiava a testa bassa, non chiedeva le fosse passato nulla che apparecchiasse la tavola, si allungava più che poteva per servirsi da sola, fino a girare attorno al tavolo per evitare di sfiorare Silvia, sembrava le potesse attaccare una malattia. Silvia non ne poteva più, spesso evitava di mangiare con i suoi, quando invece era lì la voce spesso le si spezzava. Era il groppo alla gola che non le faceva uscire le parole, ma se solo fosse riuscita a gridare…”Vi odio”, voleva dire questo a tutti, anche al padre. Odiava il padre per l’incapacità di tirare fuori le palle, per essersi accontentato della vita che conduceva. Odiava la madre perché non le aveva mai fatto un complimento, l’aveva sempre criticata, e perché fondamentalmente desiderava una figlia che non era lei. Odiava Gina perché era nata ottantatré anni prima, da una madre sgobbona per necessità e da un padre che si era ammalato fino a perdere la vista. Forse odiava anche se stessa perché capiva troppo, perché a forza di ragionare tutto riportava e la sua famiglia non sarebbe potuta essere altro che così. Ogni cosa aveva la sua spiegazione. Ogni parola, ogni gesto, ogni sì e ogni no. Lei lo capiva, ma gli altri non se ne erano mai accorti.

Un film, un libro, poteva essere tutto questo la sua vita. Le capitava anche di sognare di leggere la sua storia stampata sul giornale, un terribile fatto di cronaca tinto di pece da una morte, la sua. Ora che aspettava un bambino si sentiva anche in colpa per i suoi incubi, temeva potessero far male alla creatura. I sensi di colpa li aveva anche prima che Nicola le potesse fornire una motivazione valida. Silvia era cresciuta col dovere della colpa, insegnatole dagli adulti che al tempo non erano capaci loro stessi di riconoscere i loro sbagli. Cresciuta, Silvia non era mai riuscita a liberarsi delle sue debolezze, ancora si faceva mettere all’angolo, tuttora lei doveva esser la causa dei litigi dei suoi genitori perché tutto in famiglia restasse normale.

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