@

dibeneinpeggio.blog@libero.it

sabato 27 dicembre 2008

Scegliere dove vivere non è mai stato così importante

Il premio Pulitzer Thomas Friedman immaginava un mondo dove Internet e lo tsunami della globalizzazione avrebbero azzerato barriere e distanze. E reso insignificante la scelta del dove abitare.
Il sociologo Richard Florida rimette la città al centro e sostiene la tesi opposta: “the world is spiky”, cioè è come un istrice pieno di aculei, dove le metropoli in crescita che attirano la classe creativa, generano denaro e innovazione, si contrappongono alle ampie zone praticamente deserte.

Perché il ritorno alle città? «Ci sono varie ragioni», dice Saskia Sassen, docente di Sociologia alla Columbia University e autrice di Una sociologia della globalizzazione (Einaudi) e Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori). «La prima è che i giovani preferiscono i grandi centri abitati rispetto a quelli piccoli e alle periferie, e i nuovi settori di crescita economica generano una domanda di persone giovani altamente qualificate. La seconda ragione ha più a che fare con una trasformazione strutturale: la nostra economia di servizi richiede lavori che devono essere svolti in aree urbane, ovvero piccole città per quelli di routine, e città globali per quelli più complessi».

L’economia globale è trainata da 40 megaregioni (grandi agglomerati come la Greater London o New York) dove il 20% della popolazione mondiale produce due terzi della ricchezza. Sono queste megaregioni che comandano le migrazioni.

Cosa rende una città più attraente di altre? «Le città più desiderabili conciliano tendenze opposte. Caos e ordine. Da una parte devono essere molto stimolanti da un punto di vista creativo, innovativo, dall’altra devono offrire calma, pace e una sensazione di rifugio». In queste città si forma un circolo virtuoso: gli individui producono idee che generano la nascita di società e quindi capitale. Sempre secondo Charles Landry, Monaco, Dublino, Helsinki e Amsterdam rispondono a entrambi i requisiti, così come Barcellona e Copenhagen.«L’Italia è un Paese frustrante», dice Landry, «perché sebbene le persone siano creative e adattabili non c’è una leadership, a tutti i livelli, che possa trasformare questa creatività in realtà, cioè in risposta a problemi di tutti i giorni come il crimine o la questione ambientale».

Ma le città non attraggono solo l’élite, la classe creativa, professionisti che conducono vite privilegiate e non hanno nessun problema a integrarsi.

La migrazione di massa deve essere governata non solo dal governo, ma da un’altra serie di attori tra cui clero, gruppi civili e forze economiche. E la tolleranza è fondamentale per il successo della città. «Ad Amsterdam le diverse culture contribuiscono al livello di follia creativa, qualità che dovrebbe offrire ogni città interessante. Madrid e Belfast hanno ottimi programmi di integrazione. Ma altre volte gli immigrati vivono in mondi paralleli che escludono gli altri», dice Landry. Le città non sono solo fonte di opportunità ma anche di rischio.
Le città hanno perso la capacità di controllare i conflitti tramite commercio e attività civica, e quelle più importanti stanno diventando avamposti di guerra».

Liberamente tratto da un articolo su La Repubblica delle Donne--------------------------------------------------------------------------------

Nessun commento: