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domenica 27 luglio 2008

La difficile arte di salutare gli altri


Caro direttore, il saluto? Dico subito qual è il peggiore. Non c´è peggior modo di salutare che dire SALVE, parola che, di per sé fredda e sgraziata, viene quasi sempre gettata, più che detta, con svogliatezza e noncuranza: il «salve» esclude ogni possibile amabilità ed è significativo che sia diventato, dopo il «ciao», il saluto italiano più diffuso. Il «salve» degli ambienti giovanili e di lavoro sottintende repulsione per la socialità, l´indisponibilità al dialogo e all´amicizia, avvertendo: c´è un muro, ci vai a sbattere. Meglio ritrarsi. Anni fa scendevo talvolta a un albergo romano a tre stelle, al Nomentano, accettabile... Un giorno fu assunto un portiere di giorno che, non ripreso dalla direzione, salutava la clientela, abitualmente, con «salve». Oltre che sgradevolmente infame, il «salve» non può essere seguito da un nome proprio senza sprofondare di più nel brutto, e il portiere ideale, in qualsiasi albergo, è quello che ti dà il buongiorno accompagnato dal nome. Buongiorno signor Tiramazza! Questo fa che il nominato Tiramazza gongoli, e l´albergo, terra dei nessuno, gli è subito reso familiare; molte paure, inerenti all´assurdità del soggiorno in camere di tutti, svaniscono... Per evitare lo sconcertante saluto anonimo di quel portiere caricato a salve, mai più, in quell´albergo romano, ho rimesso piede. Il miglior saluto è «ciao», in lingua ancora decentemente italiana, lo segua o no il nome. Dall´eco un po´ servile nell´ètimo (sciavo, schiavo, s´intende: tuo) l´origine è strapersa, e «ciao» ha il colore dell´indipendenza Il suo uso in lingua corrente è databile, pare, verso 1880: dunque si poteva già salutare con "Ciao Giosuè" il Carducci e con "Ciao Mimile" Èmile Zola, come lo chiamava la sua legittima, Alexandrine. Prima del 1922, "Ciao benito" lo poteva dire chiunque – dopo, via via, sempre meno. Facile, del nobile linguistico, lo scadimento. Ciao è bello a patto che non sia ripetuto: ciao-ciao sfiora già il cadente è svogliato e denota, pur con le migliori intenzioni, una grande stanchezza. Il ciao ripetuto è dei moribondi, dei grandi malati, potendo è meglio astenersene. Pessimo, da evitare, da reprimere, dilagato come un male infettivo è il ciao a filza di salamini, a mitraglia di guerrigliero, oggi usatissimo nei congedi telefonici, sia di fisso che di cellulare: "ciao ciao ciao ciao ciao...!". Di solito è affannato, nevrotico, sintomatico di qualche buco nero nascosto o dichiarato. "Addio" ha cessato di essere un modo di salutare. Era per antonomasia il saluto epistolare, i grandi della lingua terminavano così la lettera di busta sigillata. Adesso sarebbe incongruo, ironico, accolto male. Un suicida, un condannato a morte scrivono, nei loro convulsi messaggi, come saluto supremo, "addio". La canzone degli anarchici espulsi dalla Svizzera, di Pietro Gori, famosissima, attacca e termina con addio. Dai messaggi lasciati in segreterie telefoniche o digitati nei cellulari "addio" è bandito. O può sussistere come formula di rottura. Nella lingua letteraria, considerato evento in un contesto narrativo, "addio" resta vivo e pregnante. Ma rimanda a Dio, al cui regno appartengono i morti, ed è come se a quel regno si consegnassero i vivi, quelli che oggi stanno camminando di sera lungo la via Karl Johann di Munch o sotto la porta di Brandeburgo, tutti votati Dis Manibus. Rinviare a Dio o agli Dei è, in un certo senso, come già morti salutare i vivi. C´è da riflettere sull´universale adiòs castigliano – che ha valore identico a ciao – espressione emblematica di un mondo che aveva (non so se ancora abbia, fra tante demolizioni) un legame indissolubile e una completa familiarità con la morte. La lingua accogliendo a-Diòs già nel secolo XV (Corominas Etimologico) lo accompagnava con sii, siate (con Dio, andate con lui, etc.) in un esplicito affidamento augurale a un deus absconditus delle persone salutate, come corpi viventi da preservare e come anime di disincarnati da salvare. Il fatto che da tempo l´addio neolatino appaia neutro e al di fuori di ogni trascendenza, questa tuttavia, nella profondità d´essenza della parola rinviante a un oltre, rimane sottintesa: apri il bisillabico saluto accomiatante, ed è un giocattolo a molla a rivelarti che cosa in verità significhi dire addio.

Di Guido Ceronetti
La Repubblica- 27.07.08

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